La Commissione chiede pareri sul riesame del regolamento sui mercati digitali

Il 3 luglio 2025 la Commissione ha avviato una consultazione pubblica sul primo riesame del regolamento sui mercati digitali.

La Commissione chiede riscontri ai cittadini, alle piccole e medie imprese, alle organizzazioni imprenditoriali e ad altre parti interessate dell’UE in merito all’impatto e all’efficacia del regolamento sui mercati digitali e alla sua adeguatezza rispetto alle sfide emergenti, come la diffusione di servizi basati sull’IA. Sulla base dei contributi ricevuti, la Commissione elaborerà una relazione di valutazione dell’impatto del regolamento sui mercati digitali, che sarà presentata al Parlamento europeo, al Consiglio e al Comitato economico e sociale europeo.

La Commissione è tenuta a effettuare un riesame del regolamento sui mercati digitali entro il 3 maggio 2026, e successivamente ogni tre anni. Le parti interessate hanno tempo fino al 24 settembre 2025 per presentare le loro osservazioni.


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AI generativa, stretta normativa dal 2025: nuovi obblighi per dati, trasparenza e sicurezza

L’intelligenza artificiale generativa ha ormai lasciato i laboratori di ricerca per diventare uno strumento centrale in molti settori, dalla creazione di contenuti digitali all’assistenza automatizzata, passando per applicazioni industriali e legali. Ma il suo utilizzo solleva interrogativi giuridici e rischi sociali che l’Unione Europea si prepara ad affrontare con la prima normativa organica al mondo in materia di AI: il Regolamento (UE) 2024/1689, noto come AI Act.

Approvato nel luglio 2024 ed entrato in vigore il 1° agosto dello stesso anno, l’AI Act segna un cambio di paradigma normativo, fissando un quadro vincolante di regole per lo sviluppo, l’uso e la commercializzazione di sistemi di intelligenza artificiale nel mercato europeo. E il 2025 sarà l’anno della svolta operativa, con i primi obblighi concreti per i fornitori di AI generativa.

Cosa prevede l’AI Act: classificazione e divieti

Il regolamento adotta un sistema di classificazione dei sistemi di AI per livello di rischio. I più pericolosi — quelli a “rischio inaccettabile” — come il social scoring e il riconoscimento facciale in tempo reale negli spazi pubblici, sono vietati dal febbraio 2025. I sistemi ad “alto rischio”, utilizzati in settori delicati come giustizia, istruzione o infrastrutture critiche, saranno invece sottoposti a requisiti rigorosi in materia di trasparenza, tracciabilità, auditabilità e supervisione umana, con piena applicazione a partire dal 2026.

Tra le misure più rilevanti c’è l’obbligo, dal 2 agosto 2025, per i fornitori di modelli di AI generativa di documentare e rendere disponibili informazioni dettagliate su:

  • Architettura del modello

  • Potenza computazionale utilizzata (in FLOPS)

  • Origine e tipologia dei dati di addestramento

  • Sistemi per prevenire la generazione di contenuti illegali

Un intervento normativo reso necessario dall’esplosione di piattaforme generative come Midjourney o Anthropic e dai contenziosi già in corso per violazioni di copyright e scraping non autorizzato di dati online.

Contenziosi aperti e nodi giuridici

La regolamentazione arriva infatti mentre la giurisprudenza internazionale è chiamata a tracciare i confini della liceità nell’uso dei dati e dei contenuti AI. Emblematico è il procedimento promosso da The Walt Disney Company e altri colossi dell’intrattenimento contro Midjourney, accusata di addestrare i propri algoritmi su materiali protetti da copyright.

Allo stesso modo, Reddit ha contestato ad Anthropic la raccolta massiva di post degli utenti senza autorizzazione, sollevando il tema della titolarità dei contenuti e del rispetto dei termini di servizio sulle piattaforme online.

Cause che contribuiscono a definire i limiti del cosiddetto fair use nell’era AI, un terreno giuridico ancora poco esplorato ma che il nuovo regolamento europeo punta a normare.

Gli obblighi per chi fornisce AI generativa

Il titolo IV del Regolamento e in particolare l’articolo 53 impongono ai fornitori di AI generativa di mantenere registri e documentazione tecnica per almeno dieci anni, garantendo piena trasparenza sull’origine dei dati e sulle performance dei modelli.

Inoltre, l’articolo 71 introduce un database pubblico europeo in cui saranno iscritti tutti i sistemi ad alto rischio prima della loro immissione sul mercato. Un registro accessibile alle autorità di controllo e ai consumatori, per aumentare la trasparenza e il controllo sociale sulle applicazioni AI più invasive.

Sanzioni e impatto per le imprese

Il mancato rispetto delle disposizioni potrà costare fino al 7% del fatturato mondiale annuo dell’operatore coinvolto, una soglia che rende evidente quanto il legislatore europeo punti a un’effettiva deterrenza.

Per questo, le imprese devono attrezzarsi da subito, mappando i propri sistemi AI, valutandone il livello di rischio e predisponendo le documentazioni richieste. Sarà inoltre necessario aggiornare contratti, policy aziendali e procedure di audit, con particolare attenzione al coordinamento tra AI Act e normative già vigenti come il GDPR, soprattutto in caso di trattamento di dati personali.

Un ruolo strategico per gli studi legali

In questo scenario, gli studi legali specializzati in tecnologia e diritto digitale avranno un compito cruciale: affiancare aziende e sviluppatori nel percorso di conformità, nella stesura di clausole contrattuali dedicate all’allocazione dei rischi e nella redazione delle valutazioni d’impatto, obbligatorie per i sistemi più critici.

Diventerà imprescindibile anche l’adozione di programmi di formazione aziendale sull’uso responsabile dell’intelligenza artificiale, già richiesti dal regolamento per chi impiega modelli generativi in contesti commerciali.


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Mandato di arresto europeo, la Cassazione: consegna rifiutabile se manca tutela sanitaria adeguata nel Paese richiedente

In tema di mandato di arresto europeo (MAE), il diritto alla salute e alla vita resta prevalente anche rispetto agli obblighi di cooperazione giudiziaria tra Stati membri. Lo ha ribadito la Corte di Cassazione con la sentenza n. 24100 del 2025, fissando un principio di diritto di rilievo per tutti i futuri casi analoghi: la consegna di un imputato o condannato può essere rifiutata se nel Paese richiedente non esistono misure alternative al carcere, come la detenzione domiciliare, per i soggetti affetti da gravi patologie, né strutture adeguate a garantirne le cure.

Il caso: grave depressione e rischio suicidario

La pronuncia trae origine dal caso di un cittadino condannato in via definitiva in Romania a sei anni e otto mesi di reclusione per corruzione. L’uomo, affetto da una grave forma di depressione con rischio suicidario accertato, era stato sottoposto in Italia a un regime di detenzione domiciliare con terapie psichiatriche intensive.

Alla richiesta di consegna avanzata dalle autorità romene, la Corte d’Appello, richiamando la sentenza della Corte di Giustizia UE (Grande Sezione, causa C-699/21, E.D.L.) e la decisione n. 177/2023 della Corte Costituzionale italiana, ha deciso di sospendere la consegna, dichiarandola definitivamente inattuabile. Motivo? L’ordinamento rumeno non prevede la possibilità di una detenzione domiciliare con cure psichiatriche equivalenti, mentre l’ingresso in carcere comporterebbe un rischio concreto e grave per la vita e la salute del condannato.

Il principio affermato dalla Cassazione

Nel respingere il ricorso proposto dal Procuratore generale presso la Corte d’Appello di Bari, la Suprema Corte ha affermato un principio di diritto:

“In tema di mandato di arresto europeo, qualora successivamente alla decisione che dispone la consegna emergano motivi seri e comprovati di ritenere che la consegna esponga la persona richiesta ad un rischio reale di riduzione significativa della sua aspettativa di vita o di un deterioramento rapido e irrimediabile del suo stato di salute, la Corte di Appello, quale giudice dell’esecuzione, può rifiutare la consegna con ordinanza ricorribile in Cassazione”.

Salvaguardare la persona oltre la cooperazione giudiziaria

Una posizione perfettamente in linea con i più recenti approdi della giurisprudenza europea, che impone agli Stati membri di assicurare che l’esecuzione di un MAE non determini trattamenti inumani o degradanti, come previsto dall’articolo 4 della Carta dei Diritti Fondamentali dell’Unione Europea.

La Corte ha chiarito che, diversamente dai casi di pericolo generico legato a condizioni strutturali carenti del sistema carcerario di uno Stato, questa decisione si basa sulla specifica situazione personale del soggetto richiesto in consegna e sulla concreta inadeguatezza del trattamento sanitario disponibile nel Paese richiedente.

Decisione motivata e fondata su criteri rigorosi

Nel confermare la legittimità del rifiuto alla consegna, la Cassazione ha evidenziato che la valutazione della Corte d’Appello non è stata arbitraria né apodittica, bensì fondata su dettagliate relazioni mediche e informazioni ufficiali ricevute dallo Stato estero.

È stato così accertato che in Romania non esiste una misura alternativa alla detenzione in carcere per malati psichiatrici gravi né è disponibile una terapia analoga a quella somministrata in Italia, circostanza che avrebbe esposto l’uomo a un rischio immediato di suicidio e a un rapido deterioramento delle condizioni di salute.


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Giustizia italiana, l’Europa bacchetta ancora: tempi lunghi, pochi giudici e spese record

L’Italia della giustizia non è più sinonimo assoluto di processi lumaca, ma resta saldamente ancorata ai problemi cronici di sempre: pochi giudici, troppi avvocati, spese processuali tra le più alte del continente e tempi infiniti per arrivare a una sentenza definitiva. È quanto emerge dalla relazione annuale della Commissione Europea sullo stato di funzionamento della giustizia negli Stati membri, un report impietoso che certifica progressi marginali e conferma i nodi strutturali mai risolti.

Tra le maglie dei tribunali italiani si continua a procedere a rilento, soprattutto quando si arriva ai livelli superiori di giudizio, proprio mentre l’attuazione delle riforme previste dal Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (PNRR) dovrebbe rappresentare un’occasione storica per cambiare passo. Ma i dati raccolti dalla Commissione, aggiornati al 2023, fotografano un Paese ancora troppo distante dagli standard europei.

Tempi più rapidi, ma il podio dei ritardi resta italiano

Una notizia positiva, seppur modesta, c’è: il tempo medio per chiudere un processo di primo grado è sceso sotto i 500 giorni, con un lieve miglioramento rispetto al monitoraggio precedente (circa 20 giorni in meno). L’Italia resta comunque ai vertici per lentezza, dietro solo a Grecia e Croazia.

Le note più dolenti, però, riguardano i procedimenti di secondo e terzo grado. Per una sentenza definitiva occorrono in media 1.000 giorni — quasi tre anni — dato che pone l’Italia al primo posto tra i 27 Paesi Ue. Nemmeno le sentenze d’appello se la cavano meglio: 700 giorni di media per il secondo grado di giudizio, un altro primato di cui il Paese farebbe volentieri a meno.

Un sistema squilibrato: troppi avvocati, pochi giudici

A incidere sui tempi dilatati della giustizia italiana è anche l’assetto strutturale del comparto. Con quasi 400 avvocati ogni 100mila abitanti, l’Italia è tra i Paesi con la più alta concentrazione di legali in Europa. All’opposto, il numero di giudici disponibili è tra i più bassi: appena 11 ogni 10mila abitanti, contro una media europea ben più alta.

Una sproporzione che non solo rallenta il sistema, ma lo ingolfa di contenziosi, spesso alimentati da un eccesso di accesso agli uffici giudiziari senza un adeguato numero di magistrati in grado di gestirli.

Costi fuori controllo: l’Italia prima per spese processuali

Se i tempi sono un problema, i costi non sono da meno. Il nostro Paese guida la classifica europea delle spese legali, che rappresentano in media il 52% del valore della causa. Un dato nettamente superiore al secondo classificato, la Finlandia, ferma al 39%.

Non solo: con una parcella media di circa 2.500 euro per un avvocato difensore, l’Italia è il terzo Paese più caro d’Europa dietro Paesi Bassi e Croazia. Un costo che pesa sui cittadini e sulle imprese e che, unito alla lentezza del sistema, rappresenta un grave ostacolo alla competitività e alla tutela effettiva dei diritti.


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Cassazione, il monito delle Camere Penali: “Assemblea Generale strumento improprio di pressione sul legislatore”

Una nuova e preoccupante deriva nell’equilibrio dei poteri dello Stato. È questa la posizione netta dell’Unione Nazionale delle Camere Penali Italiane, che ha diffuso un documento a seguito dell’Assemblea Generale della Corte Suprema di Cassazione, tenutasi lo scorso 19 giugno. L’occasione, convocata formalmente per “una riflessione condivisa sul ruolo della Corte di Cassazione quale garante dell’unità del diritto”, ha finito col trasformarsi — secondo l’associazione forense — in un’iniziativa che travalica i limiti normativi e costituzionali, sconfinando in un ambito di competenza esclusiva del potere legislativo.

Il nodo giuridico e istituzionale

A essere contestata è la modalità con cui la Suprema Corte ha utilizzato l’Assemblea Generale, strumento previsto dall’articolo 93 dell’Ordinamento giudiziario per deliberazioni di carattere interno e organizzativo-amministrativo, e non certo per formulare indirizzi sul ruolo interpretativo del giudice di legittimità o, peggio ancora, per rivolgere proposte e richieste al Governo, al Parlamento e al Consiglio Superiore della Magistratura.

Il documento delle Camere Penali richiama il principio costituzionale sancito dall’articolo 101, comma 2, che riserva alla legge la disciplina dell’attività giurisdizionale, e denuncia l’illegittimità di un’Assemblea che si attribuisce funzioni consultive non previste, né consentite.

Una “nuova frontiera” dell’ampliamento di potere

La Giunta dell’Unione Camere Penali sottolinea come il deliberato approvato dalla Cassazione arrivi persino a rivolgere raccomandazioni al Parlamento per “acquisire il punto di vista della Corte su riforme processuali e ordinamentali”, un’iniziativa non solo priva di fondamento normativo, ma lesiva delle prerogative istituzionali delle Camere e del Governo.

Particolarmente grave, prosegue il documento, è il richiamo contenuto nel deliberato a introdurre una nuova disciplina per l’accesso all’albo speciale per il patrocinio davanti alle giurisdizioni superiori, separando chi difende nei giudizi di merito da chi esercita nei giudizi di legittimità. Dietro la motivazione apparente — migliorare la qualità dei ricorsi — si cela, secondo i penalisti, l’obiettivo di ridurre fortemente il numero di avvocati legittimati a ricorrere in Cassazione, mutando di fatto la natura della Suprema Corte da giudice di terza istanza a organo di sola nomofilachia.

Le ricadute costituzionali

Una prospettiva che l’Unione definisce inaccettabile anche nel merito, in quanto contraria al settimo comma dell’articolo 111 della Costituzione, che garantisce il diritto di ricorrere in Cassazione come presidio della tutela giurisdizionale. Una garanzia che rischia di svuotarsi di significato se il filtro all’accesso viene innalzato oltre misura o demandato a criteri estranei alla funzione giurisdizionale.

Una preoccupante abitudine istituzionale

Non è la prima volta -secondo l’UNCP- che il Consiglio Superiore della Magistratura e ora anche la Cassazione utilizzano impropriamente forme di parere o sollecitazione a Parlamento e Governo in assenza di espresse richieste istituzionali. La Giunta delle Camere Penali denuncia così una prassi ormai consolidata, che altera il delicato equilibrio tra poteri e mette a rischio l’autonomia e l’indipendenza reciproca delle istituzioni.


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Stop alle telefonate moleste: dal 19 agosto scattano i nuovi filtri anti-spoofing

Addio alle chiamate moleste da numeri fasulli: dal prossimo 19 agosto scattano le nuove misure anti-spoofing previste dalla delibera dell’Agcom, che introduce un filtro tecnico-operativo in grado di bloccare le telefonate in arrivo da numeri contraffatti. Una stretta necessaria per contrastare il telemarketing selvaggio e le frodi telefoniche che ogni giorno infastidiscono ed ingannano milioni di utenti.

Le date chiave sono due: il 19 agosto e il 19 novembre. A partire dalla prima, gli operatori di telefonia dovranno impedire l’arrivo di chiamate provenienti dall’estero che mascherano il proprio identificativo dietro numerazioni italiane fittizie, spesso utilizzate per campagne di telemarketing aggressivo o per truffe più insidiose. Dal 19 novembre, invece, il blocco si estenderà anche ai falsi numeri mobili, completando così il piano di intervento studiato per ripulire le reti italiane da questo odioso fenomeno.

Il provvedimento nasce da un lungo confronto coordinato dall’Autorità garante per le comunicazioni, che ha coinvolto associazioni dei consumatori, società di telecomunicazioni, imprese di call center ed esperti del settore. La questione dello spoofing — cioè la manipolazione fraudolenta del numero identificativo del chiamante (Cli) per far apparire la chiamata come proveniente da un soggetto diverso — è infatti divenuta negli ultimi anni un’emergenza quotidiana per i cittadini e un rischio serio per la sicurezza digitale.

Come funzionerà il nuovo filtro anti-spam

Il sistema prevede che tutte le chiamate in ingresso sulla rete nazionale vengano sottoposte a un controllo automatico del numero di origine. Se il prefisso o il numero risultano non autorizzati o incompatibili con il paese di partenza della chiamata, questa verrà automaticamente bloccata prima di raggiungere il destinatario. Sino ad oggi, invece, mancava una tecnologia di verifica immediata che consentisse agli operatori di interrompere le telefonate sospette senza rischiare di filtrare anche comunicazioni lecite.

Il blocco delle chiamate con numeri fissi falsi sarà attivo dal 19 agosto, mentre per i numeri mobili, la cui gestione risulta più complessa sul piano tecnico, ci vorranno altri tre mesi, fino al 19 novembre. La delibera Agcom — adottata il 19 maggio scorso — ha infatti imposto agli operatori una doppia scadenza di tre e sei mesi per implementare le rispettive misure.

Un passo avanti contro frodi e molestie

La decisione di Agcom arriva in un contesto segnato da un’escalation di truffe telefoniche, spesso realizzate con chiamate apparentemente provenienti da enti pubblici o istituti bancari, che hanno colpito migliaia di utenti nel corso dell’ultimo anno. Particolarmente esposti i settori di fornitura energetica e finanziaria, dove il raggiro si maschera dietro offerte fasulle o allarmi di sicurezza per ottenere dati personali e bancari.

Con questo intervento, l’Italia si allinea a quelle realtà europee che hanno già adottato contromisure per arginare il telemarketing aggressivo e il crimine informatico veicolato via telefono. Un cambio di passo atteso da milioni di cittadini, che da anni denunciano un’invasione quotidiana di telefonate moleste e truffaldine.


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Caldo record, 1.000 congelatori “pozzetto” per le carceri italiane

Roma, 2 luglio 2025 – Per rispondere concretamente al caldo record registrato in queste settimane, il Ministero della Giustizia, attraverso il Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria (DAP), ha avviato l’acquisto di 1.000 congelatori orizzontali tipo “pozzetto” da destinare agli istituti penitenziari su tutto il territorio nazionale. L’iniziativa nasce come risposta concreta all’aumento delle temperature, con l’obiettivo di offrire sollievo alla popolazione detenuta durante i mesi estivi.

L’intervento, fortemente voluto dal Ministro della Giustizia, Carlo Nordio, e dal Capo del DAP, Stefano Carmine De Michele, rappresenta un segno di attenzione, rispetto e sensibilità verso le condizioni di vita delle persone ristrette, in linea con i principi costituzionali di umanità della pena e tutela della dignità individuale.

I congelatori pozzetto consentiranno una migliore conservazione degli alimenti e l’accesso a bevande e generi refrigerati, contribuendo a migliorare le condizioni quotidiane in un periodo caratterizzato da ondate di calore sempre più frequenti.

Questa misura si inserisce nel più ampio piano di interventi del Ministero per il miglioramento delle condizioni detentive e il rafforzamento dei diritti fondamentali, anche attraverso gesti semplici ma dal forte impatto umano e simbolico.


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Marche, il nuovo portale per curatori speciali e tutori: il video tutorial

È online il nuovo Portale di iscrizione nell’elenco dei curatori speciali e/o tutori per il Tribunale per i Minorenni delle Marche, un progetto ideato dal presidente Sergio Cutrona e realizzato da Servicematica.

Il portale permette agli avvocati di registrarsi, inserire i propri dati professionali e attestare titoli, corsi di formazione ed esperienze specifiche nel settore minorile e di famiglia. Grazie all’integrazione con la Carta Nazionale dei Servizi e credenziali personalizzate, garantisce sicurezza e gestione autonoma delle informazioni.

Parallelamente, un’area dedicata consente al Tribunale di consultare schede aggiornate dei professionisti, velocizzando la selezione in base alle esigenze dei procedimenti.

Per guidare gli utenti nell’utilizzo della piattaforma è disponibile il video tutorial ufficiale sulla Web TV di Servicematica, accessibile al link:

👉 Guarda il video tutorial qui


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Diffamazione online, il blogger è responsabile se non rimuove i commenti illeciti segnalati

In rete la libertà di espressione convive con il diritto all’onore e alla reputazione, e a regolare questo difficile equilibrio arriva una nuova presa di posizione della Corte di Cassazione.

Con l’ordinanza n. 17360 depositata il 30 giugno 2025, la Terza sezione civile ha stabilito che il gestore di un blog o di una piattaforma digitale, sebbene configurabile come hosting provider non attivo, è tenuto a rimuovere tempestivamente i commenti illeciti pubblicati da terzi non appena ne acquisisca consapevolezza — anche se tale conoscenza non gli perviene tramite una comunicazione ufficiale delle autorità competenti.

Il caso e la decisione della Suprema Corte

La vicenda nasce dalla richiesta di risarcimento avanzata da un cittadino che si era ritenuto diffamato da alcuni commenti apparsi su un blog. Poiché il curatore della piattaforma non aveva provveduto a rimuoverli dopo la segnalazione, la parte lesa si era rivolta prima al Tribunale e poi alla Corte d’Appello, trovando in entrambi i casi risposta negativa.

Per i giudici di merito, infatti, il gestore del blog avrebbe avuto l’obbligo di rimozione dei commenti diffamatori solo a seguito di una comunicazione ufficiale delle autorità competenti, in quanto solo tale notifica avrebbe configurato una “conoscenza qualificata” della loro illiceità.

La Cassazione, ribaltando questa lettura, ha invece ricordato che né la normativa europea (Direttiva 2000/31/CE) né il Dlgs 70/2003 — che disciplina in Italia i servizi informatici — prevedono che la responsabilità dell’hosting provider sia subordinata a una segnalazione formale da parte di un’autorità pubblica.

Conoscenza effettiva e illiceità manifesta

Secondo la Suprema Corte, il principio cardine è che il gestore della piattaforma, pur non rispondendo automaticamente dei contenuti pubblicati da terzi, diventa responsabile nel momento in cui acquisisce effettiva consapevolezza del carattere manifestamente illecito delle informazioni.

Tale consapevolezza può derivare da qualsiasi fonte: una segnalazione della parte offesa, una notizia di stampa, o persino una presa d’atto diretta del contenuto. È vero che una comunicazione ufficiale delle autorità può semplificare la valutazione sull’illiceità, ma non è condizione necessaria per far scattare l’obbligo di intervento.

Un principio in linea con le garanzie costituzionali e comunitarie

Nel fondare questa interpretazione, la Cassazione ha richiamato la propria giurisprudenza penale (sentenza 12546/2019) e le indicazioni della Corte Costituzionale e della Corte EDU, che più volte hanno sottolineato come il diritto alla libertà di espressione debba essere bilanciato con la tutela della dignità personale e che le deroghe alla libertà di parola sono legittime quando giustificate da ragioni obiettive e razionali.

Un modello di equilibrio tra libertà di rete e responsabilità

In definitiva, la Corte ha fissato un principio chiaro:

“Il prestatore di servizi informatici che rivesta il ruolo di hosting provider non attivo è esente da responsabilità per i contenuti illeciti immessi da terzi, ma, una volta acquisita la consapevolezza della manifesta illiceità di tali contenuti — per qualsiasi via — è obbligato a rimuoverli tempestivamente per mantenere l’esenzione da responsabilità”.

Una pronuncia che aggiorna il quadro giuridico italiano sull’accountability delle piattaforme digitali, rafforzando la tutela dei diritti della personalità nel contesto della comunicazione online e confermando che anche nella società dell’informazione la responsabilità non può essere elusa dietro il paravento tecnico dell’intermediazione passiva.


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La modernizzazione della giustizia civile, spinta dall’esperienza pandemica e dalla riforma Cartabia, continua a confrontarsi con il rispetto delle garanzie processuali tradizionali, specie in ambiti sensibili come il processo del lavoro, da sempre improntato ai principi di oralità, immediatezza e concentrazione.

A dirimere una delle questioni più dibattute negli ultimi mesi è intervenuta la Corte di Cassazione a Sezioni Unite con la sentenza n. 17603/2025, chiarendo i confini di applicazione dell’articolo 127-ter del Codice di procedura civile, che consente la trattazione scritta delle udienze, anche nel rito del lavoro.

La regola: sì alle note scritte, ma solo col consenso di tutti

Le Sezioni Unite hanno affermato in modo netto che nel processo del lavoro è possibile sostituire l’udienza di discussione con il deposito di note scritte solo se tutte le parti vi consentono. Una precisazione che scioglie i dubbi interpretativi nati dopo l’entrata in vigore della riforma e del successivo decreto correttivo, che aveva lasciato aperta la questione per il rito lavoristico.

La Corte ha spiegato che la trattazione cartolare non viola i principi cardine del processo del lavoro, purché sia garantita la parità tra le parti e sia preservato il diritto di difesa. In quest’ottica, il passaggio alle note scritte rappresenta una modalità alternativa, funzionale in alcuni casi a snellire il carico delle udienze, senza tuttavia comprimere le garanzie processuali dei soggetti coinvolti.

Il deposito telematico allinea tempi e garanzie

Un altro punto toccato dalla pronuncia riguarda la gestione dei termini per il deposito delle note scritte. Secondo le Sezioni Unite, anche qualora il giudice stabilisca oltre alla data anche un orario specifico, questo non può che coincidere con l’intero orario di apertura dell’ufficio giudiziario. E, soprattutto, non può essere considerato un termine perentorio ai fini della decadenza, considerata la piena operatività del deposito telematico ormai introdotto a regime.

Significativo anche il richiamo al principio secondo cui il deposito telematico del dispositivo di sentenza è da considerarsi equivalente alla lettura in udienza, superando così definitivamente la necessità della presenza fisica delle parti per la pronuncia del dispositivo, anche nel processo del lavoro.

Costituzionalità e tutela del contraddittorio

Nel motivare la propria decisione, la Cassazione ha richiamato più volte i precedenti orientamenti costituzionali e della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, ribadendo che il principio di pubblicità dell’udienza, pur fondamentale, non ha carattere assoluto e può essere derogato in presenza di motivazioni oggettive e razionali, come le esigenze di celerità processuale e di razionalizzazione dei procedimenti civili.

L’importante è che tali deroghe non pregiudichino il contraddittorio e mantengano le parti su un piano di parità, garantendo il rispetto effettivo del diritto di difesa in tutte le fasi del giudizio.

Verso una nuova normalità per il rito lavoristico

La decisione delle Sezioni Unite consolida così una tendenza ormai evidente: quella della progressiva cameralizzazione del processo civile, compreso il processo del lavoro, in linea con le esigenze organizzative della giustizia post-pandemica e le innovazioni introdotte dal legislatore.

Resta fermo però — ed è il nodo centrale ribadito dalla Cassazione — che nel rito lavoristico, data la delicatezza delle materie trattate e la tradizionale centralità della trattazione orale, il ricorso alla modalità scritta può avvenire solo con il consenso unanime delle parti.


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